(Foto di Instafabius, dopo un’ora di trucco e parrucco (Kudos2)

Tre anni fa ho condotto un programma in tivvù, intitolato “Kudos”. Una di quelle esperienze di lacrime (di gioia) e sangue che porto nel cuore, oltre che nel curriculum.
“Kudos” si articolava con una parte in studio in diretta una volta a settimana (Rai4) e una serie di servizi realizzati dai redattori e autori. Tra questi, c’ero anche io. Il ritmo del lavoro si spalmava tra prove per le dirette e realizzazione dei video (inchieste, approfondimenti, interviste oppure tutorial). Si lavorava 7/7 come spesso succede nei ritmi delle produzioni televisive. Nel corso della prima stagione il mio ruolo era doppio (conduttrice e redattrice, anche in video), nella seconda trino (no blasfemia) per cui ero redattrice (con video), autrice e conduttrice.

La doverosa premessa giunge per contestualizzare quanto accadde nel corso di una riunione.

“Dobbiamo risolvere questo *enorme* gap che c’è tra la Diletta che conduce e quella delle clip”,

tuonò una partecipante. Avevo già capito dove andasse a parare, ma per la precisione, sottolineò:

“Sembra che ci sia la sorella ricca che va in onda, rispetto a quella dei video”.

Si riferiva, chiaramente, alla differente resa estetica dopo un’ora di trucco e parrucco (ricordiamolo, appositamente studiato da professionisti del make up per le luci e le camere di uno studio) e quella delle clip, per le quali mi truccavo da sola (non sono mai stata un fenomeno, non è il mio lavoro).
La faccenda mi era stata già fatta notare, con toni più garbati, in un post diretta e la mia risposta era sempre la stessa: “Per me non c’è nessun problema, se ci volete fornire trucco e parrucco anche per le clip, si può considerare per i tempi di produzione”.

Ciò che veniva evidenziato tuttavia nel corso di quella specifica riunione, mi fece essere (forse per via della modalità espositiva), ancora più netta: “È la mia faccia ad andare in onda – risposi – e vi assicuro che per quanto mi riguarda non c’è alcun problema a mostrarne due versioni differenti, perché non ho niente da nascondere, come dimostrano le innumerevoli volte che mi ritraggono online nella vita di tutti i giorni”. Se questo avesse rappresentato poi una questione imprescindibile, ribadii, la produzione potrebbe mettere a disposizione di chi realizza anche le clip sia trucco, che parrucco. Per me, e per i colleghi.
Sono faccende che si dibattono quando si tratta di andare in onda. Possono ferire o meno, ma se ne discute, è (quasi sempre) normale.

“Kudos” era un programma che mescolava fortemente intrattenimento e informazione nell’ambito dell’innovazione, della tecnologia e dello spettacolo (anche se più marginalmente). E sottolineo che al contenuto, da parte di tutti gli attori in campo, era rivolta la massima cura e chiamate a ogni ora del giorno, come è giusto che sia. Questa della doppia Diletta era una questione marginale e nessun redattore è stato maltrattato per la realizzazione di quelle puntate. Fu infatti solo una parentesi mai gestita sul serio, anche perché i tempi di realizzazione erano talmente serrati che neanche ci saremmo potuti permettere di dedicare altre ore alla preparazione che non fosse quella di concetto.

Io in una clip (Kudos1)

Tutto questo per dire cosa? Che tutto ciò accadeva per un programma che non era un Tg o un collegamento prettamente giornalistico. Ma che, alla luce di quello che stiamo leggendo e che sta colpendo una collega (visto che non desidera polveroni, eviterò di citare), mi ha ricordato quello che credo potrebbe essere una buona norma. Ognuno ha il diritto di mostrare di sé la versione che ritiene più opportuna. Non è una questione di merito. Come la collega coinvolta nella diatriba odierna sottolineava, il merito risiede nel contenuto. Conosco altri colleghi di telegiornali, o magari inviati, che invece lo desidererebbero un po’ di make-up: credo che abbiamo l’assoluto diritto di chiederlo. Ciò che diciamo da giornalisti è un dovere deontologico, ciò che mostriamo, a mio modesto avviso, un diritto. Da esercitare ognuno nella forma che ritiene più appropriata. È il diritto di sentirsi a proprio agio, di desiderare una versione di sé, piuttosto che un’altra. Ma mai, e dico mai, dovrebbe essere oggetto di scherno da parte degli altri. Linea allo studio.